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Ue sempre più spaccata sulla gestione della crisi. I quattro di Visegrád trovano la sponda dell’Austria e dell’Italia di Salvini. Babiš: “L’immigrazione non è un nostro problema, ma pronti a aiutare finanziariamente Roma e Atene”

“Not in my backyard”. È questo il ritornello che in modo più o meno esplicito Praga ha sempre ripetuto riguardo all’accoglienza dei migranti. Ritornello che ha trovato eco e forza nelle posizioni del Gruppo di Visegrád e che sta riscuotendo sempre più consensi anche in quell’Europa ogni giorno più spaccata e solcata trasversalmente dal populismo e da sentimenti anti-migranti.

Un refrain che si è fatto sentire fortissimo anche all’ultimo vertice Ue, poco prima dell’inizio della presidenza di turno austriaca. Vienna è infatti intenzionata a cavalcare il principio secondo cui i migranti devono essere aiutati nel loro Paese d’origine, al massimo nei Paesi di primo approdo se richiedenti asilo, sottoposti a screening al di fuori delle frontiere Ue (i famosi hotspot nei Balcani) e assolutamente mai redistribuiti secondo quote obbligatorie ma soltanto volontarie. E “volontario” è stato l’aggettivo più discusso dell’ultimo summit in cui la Repubblica Ceca, insieme a Polonia, Slovacchia e Ungheria si è vista per la prima volta dalla stessa parte, in maniera assolutamente anomala e straniante, dell’Italia, o meglio del suo nuovo ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha tenuto posizioni più drastiche rispetto alle stesse proposte realmente al vertice Ue dall’Italia.

Una vicinanza che ha fatto storcere il naso a molti e che sicuramente avrà un peso nelle dinamiche future dell’Unione, con la Germania sempre più in difficoltà a difendere sul fronte interno la politica dell’accoglienza. E anche sul futuro della riforma del Regolamento di Dublino, su cui non si comprende la convergenza Salvini-Orbán, che sembra basata soltanto su questioni di principio più che sugli aspetti concreti dell’accoglienza e del diritto d’asilo. Se l’Ungheria, infatti, ha sigillato i suoi confini quando la rotta balcanica si è surriscaldata, lo stesso non potrai mai fare Roma, anche decidendo di chiudere i porti come ha fatto Salvini.

Il primo ministro ceco Andrej Babiš ha commentato con soddisfazione all’indomani del vertice di Bruxelles la fine del sistema Ue delle quote di ricollocamento dei richiedenti asilo, definendo la riunione dei 28 come l’avvio di “un nuovo capitolo della collaborazione Ue”. Un avvio che va a braccetto con il semestre austriaco di presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, nella seconda metà del 2018. Proprio Vienna sul fronte migranti ha avuto posizioni nette e forti, spesso in linea con l’Ungheria di Viktor Orbán e con i V4.

Secondo una bozza del progetto di Vienna per risolvere la questione migratoria serve “un sistema di protezione” in cui “nessuna domanda di asilo sarà esaminata sul suolo europeo” e l’obiettivo è di garantire entro il 2025 l’asilo soltanto a coloro “che rispettano i valori dell’Ue e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali”. Una condizione, fuori dal diritto internazionale che non prevede deroghe al dovere di protezione dei rifugiati, che l’Unione non ha mai imposto nelle sue regole attuali di valutazione dei richiedenti.

Ma se l’Austria punta anche ad aumentare i controlli alle frontiere, prima fra tutte quella con l’Italia, per Praga questo passo indietro enorme rispetto alla libertà dello spazio Schengen, conquistata meno di 15 anni fa, non è accettabile. Babiš lo ha detto in molte occasioni, anche rispondendo alla provocazione della Csu del ministro dell’Interno tedesco Horst Seehofer, che sta mettendo a dura prova l’alleanza con la cancelliera Angela Merkel. Seehofer, infatti, ha proposto di adottare una politica di respingimenti alle frontiere della Germania, tema avversato da Merkel che ha ceduto alla soluzione dei “centri di transito” per i migranti provenienti da Paesi di primo approdo.

L’eventualità di chiudere i confini, invece, secondo Babiš porterebbe alla fine di Schengen e a gravissime conseguenze per Praga, che basa sulle esportazioni il suo sistema economico: “Il nostro è un paese che fonda la propria prosperità sul funzionamento dello spazio Schengen, sulla mancanza di controlli alle frontiere con gli altri paesi Ue”.

Quindi quale potrebbe essere la soluzione per non avere migranti da accogliere, non dover chiudere le frontiere e restare nell’Ue? Il premier populista ceco ha messo in campo addirittura i soldi e il ritornello, di nuovo, del “not in my backyard”, quindi accoglieteli, i migranti si intende, ma non li mandate da me, piuttosto vi pago. “Respingiamo nella maniera più assoluta il sistema delle quote obbligatorie di ricollocamento, ma siamo contemporaneamente disposti a fornire un aiuto finanziario e materiale a Italia e Grecia, paesi in prima linea nell’affrontare questa crisi” ha detto contraddicendo le sue stesse parole di pochi giorni prima in cui criticava Merkel per la richiesta di sostegno ai Paesi che accolgono, da parte di chi non accetta migranti.

Questo atteggiamento ondivago di Babiš sull’Ue si riscontra d’altronde su vari temi: sí all’Ue per Schengen, ma no per le quote, sì per la difesa dei confini esterni della Ue, ma no all’adozione dell’euro.

E tornando al tema flussi, secondo Babiš, l’immigrazione non è un problema ceco perché “questa gente non viene da noi e non vuole neanche venirci” e Praga non intende neppure riprendere indietro quelli che sono passati per il suo territorio per approdare in Germania, smentendo un’ipotesi ventilata dalla cancelliera per i rimpatri. “Abbiamo combattuto per quasi nove ore e di fatto abbiamo ottenuto quello che chiedevamo”, ha detto Babiš dopo il summit Ue, che ha sancito la “vittoria del gruppo di Visegrád”.

Altro cardine della soluzione, condiviso dalla Repubblica Ceca, dagli alleati V4 e dall’Austria (il cui cancelliere Sebastian Kurz ha incontrato i leader di Visegrád prima delle riunioni del Blocco), gli hotspot fuori dal territorio europeo e il contrasto dell’immigrazione in mare e nei Paesi di origine e di transito dei migranti “economici “. “Il problema della migrazione si risolve fuori dall’Ue. È lì che l’Europa deve mostrare la propria forza, riuscendo a trattare coi rappresentanti degli stati di provenienza. Il mandato affidato a Frontex (l’agenzia europea che si occupa della guardia di frontiera e costiera) deve cambiare. La sua missione non può essere circoscritta a un paio di navi che traggono in salvo persone che affogano”. E se l’Ue già ha fondi per i Paesi di partenza e transito, il prossimo passo per fermare i migranti prima che varchino la frontiera è di replicare quanto fatto con l’accordo con la Turchia anche in altri Paesi. Per esempio con l’Albania, paese che dal 2014 vanta lo status di candidato all’Ue, a cui oltre al denaro potrebbe essere garantito un aiuto nel processo di adesione, se si occuperà di accogliere, fermare, esaminare e in caso rimandare indietro i migranti.

Resta il fatto che la crisi migratoria, dopo il picco del 2015, ha lasciato ferite indelebili nel corpo europeo e grandi interrogativi su come gestire in maniera solidale gli sbarchi e il diritto d’asilo. E il rischio di possibili nuove alleanze transnazionali tra i movimenti e i partiti nazionalisti – quello che alcuni già definiscono la “nuova internazionale dei nazionalismi”, – con l’incombente presidenza austriaca, le dichiarazioni provocatorie di Salvini e le difficoltà della Merkel sul fronte nazionale, lasciano spazio a scenari imprevedibili per i prossimi mesi. Su quale fronte Praga deciderà di stare, insieme ai suoi alleati del V4, deciderà probabilmente cosa sarà la Ue in futuro.

di Daniela Mogavero