Nato a Praga nel 1948, è in questo villaggio della Boemia centrale che l’eroe cecoslovacco eroe trascorse l’infanzia. Ora qui sorge un museo che lo ricorda
Una pioggerellina invernale accarezza i vecchi treni della stazione Masaryk di Praga: in poco meno di un’ora si arriva a Všetaty, un piccolo villaggio della Boemia centrale, poco più di duemila abitanti, a una trentina abbondante di chilometri dalla capitale ceca. Vi siamo giunti per visitare la casa di Jan Palach, lo studente di filosofia, che si diede fuoco il 16 gennaio 1969 in Piazza San Venceslao per protesta contro l’occupazione sovietica dell’allora Cecoslovacchia e per tentare di scuotere le coscienze dei propri concittadini dal clima di apatia e di rassegnazione imposto dalla normalizzazione di regime. È proprio da qui che egli partì per compiere quel suo gesto di disperazione destinato a passare alla Storia.
Nato a Praga nel 1948, è però a Všetaty che il giovane Palach trascorse l’infanzia. Avviandoci verso la sua casa, diventata oggi un memoriale, non ci è difficile immaginarcelo bambino, mentre gioca in queste strade accanto alle campagne coltivate che circondano Všetaty. Oppure nella sua cameretta, dove, come ricordano i suoi amici del tempo, Jan amava giocare soprattutto al piccolo chimico, con provette e mini-alambicchi.
Quando cominciò a frequentare l’università a Praga egli ebbe diritto, come tutti gli allievi fuori sede, ad avere alloggio in città, in una casa dello studente situata nel quartiere di Jarov. A Všetaty però rientrava sempre per le vacanze estive e spesso per i fine settimana. Era qui infatti che vivevano la madre e il fratello Jiří, mentre il padre Josef era morto nel 1962.
Všetaty è un paesino apparentemente dimenticato da Dio, ma certamente non dalla Coca Cola, il cui stemma è fieramente esposto sulla Masaryka, la via principale, oltre il passaggio a livello. Il corno giallo del piccolo ufficio della Česká pošta segnala che siamo ancora in Repubblica Ceca. In giro non c’è un’anima: tutto è fermo, immobile, algido.
La pioggerellina batte sulle pozzanghere della strada non asfaltata e in un’epoca come la nostra, degli spostamenti continui e della globalizzazione, la vita in un villaggio come questo ha un nonsoché di surreale. La Smetanova è la via di casa Palach, al numero 337. Si tratta dell’ultimo edificio, proprio all’angolo con un’altra strada piena di fango, costeggiata da un rigagnolo stagnante.
Prima ancora di arrivare, al di là delle siepi, non sfuggiamo allo sguardo di alcuni vicini, autentici scanner che – come sacerdoti o guardiani della memoria – scrutano i forestieri in visita. Dalla curiosità con la quale ci osservano, appare evidente che non sono abituati a vederne tanti.
Il memoriale in onore di Palach è stato ultimato nell’estate 2019 ed è stato aperto solo a settembre. Della casa originaria, che, inspiegabilmente e miseramente, si era ridotta negli anni scorsi quasi a un rudere, rimangono in pratica solo i muri perimetrali. L’edificio – nel quale i Palach non abitano più dal 1979 – è stato comprato nel 2015 dal Museo Nazionale, con l’intento di realizzarvi appunto un memoriale. Inevitabile chiedersi come sia stato possibile che un luogo come questo, legato alla memoria di uno dei più significativi eroi cechi dei tempi moderni, abbia potuto ridursi nelle condizioni in cui era sino a qualche anno fa.
I lavori di ristrutturazione sono stati effettuati con l’intento, ovviamente, di dare un nuovo decoro alla casa di quello che a tutti gli effetti può essere considerato una delle massime icone di libertà del Ventesimo secolo. Il progetto è stato selezionato nel 2016 tra trentuno in concorso. «Non è stato facile da scegliere perché il tema Palach è ancora oggi molto delicato da affrontare» aveva ammesso in quella occasione l’architetto Pavla Melková.
La trovata che contraddistingue il progetto è una enorme struttura arancione a forma di tetraedro, una sorta di piramide rovesciata che penetra nella casa dei Palach. Alla base dell’edificio vediamo corone, nastri repubblicani e pure una rara foto a colori di Jan bambino. Diverse le poesie, tra cui una di Jan Zajíc, il giovane che emulerà Palach nel tremendo gesto appena poche settimane dopo.
Una volta dentro, si ha quasi l’impressione di essere in una sorta di antinferno dantesco, che man mano si restringe mentre si entra nel ventre della casa. Due piccole porticine, una a destra e una a sinistra, illuminano il percorso.
A destra si accede alla “stanza della Pietà”, dove si erge una statua di almeno due metri, che raffigura un giovane alto e nudo, che ricorda gli uomini di Alberto Giacometti, con scaglie di pittura dorata e di cemento. A sinistra, nella “stanza della Riflessione”, c’è invece la maschera funeraria in bronzo di Palach, opera del 1969 dello scultore Olbram Zoubek. Procedendo si entra nel cuore della casa, un grande spazio vuoto e aperto.
Pareti bianche, con al centro il vertice supino della piramide che si ferma dinanzi a un ripiano, quasi un tavolo, di pietra bianca. Una superficie che “ferma il Male”, secondo la interpretazione che ci offre il guardiano, unica persona presente nel memoriale. Il grande tetraedro «vuole simboleggiare il male che entra nella casa e che man mano si estingue di fronte alla superfice bianca. Quest’ultima rappresenta i valori, la forza della famiglia e l’educazione».
La porta dantesca conferisce all’intera struttura un’atmosfera quasi sacra, ma l’elemento – l’unico di rilievo oltre alle due sculture – che più di tutti conferisce al visitatore un’esperienza “religiosa” è la scala a chiocciola che porta verso l’alto, verso una stanza in realtà inesistente. Questo piano che ormai non c’è più «era il luogo dove Jan e Jiří dormivano”, continua il guardiano. L’interruzione della scala, che porta al nulla, se non alla vista dall’alto dello spazio interno, ricorda la vita di Palach. Spezzata, interrotta a mezz’aria.
Uscendo dalla casa, sul retro, un giardinetto, erba verde, un segno di vita dopo aver respirato un’aria tanto malinconica. È singolare immaginare un giovane ventunenne studiare, giocare, parlare, ridere e leggere in quelle stanze che non ci sono più; sacrificate sull’altare di una nuova costruzione, simile alla navata di una chiesa, che celebra il suo eroe.
Accanto a casa Palach, un piccolo centro espositivo, deserto come in precedenza la dimora dei Palach. Entrando, è possibile vedere un documentario prodotto dal Museo Nazionale, così come gli ultimi oggetti che il giovane Jan aveva nella borsa in quel 16 gennaio 1969. Una spazzola, uno spazzolino da denti e una penna a sfera blu. La moderna sezione museale del memoriale ha un’ampia vetrata che si proietta sul giardino di casa Palach; all’interno pilastri interattivi che ripercorrono le origini della famiglia.
È intuibile lo sforzo fatto dagli architetti e dalle istituzioni ceche per ricordare e onorarne la figura, ma è possibile che la carenza di oggettistica personale e la scarsa multimedialità del memoriale possano far apparire monotona la visita. L’impressione è però che sia proprio questa la forza quasi mistica del luogo: Jan Palach era solo un ragazzo e nella semplicità contadina della sua dimora c’è la forza stessa del suo gesto. Visitare questo memoriale significa “tornare indietro” alle sue intenzioni, toccare la sua presenza-assenza.
Ritornando verso la ferrovia, sulla parte destra della Smetanova, ci sono ancora corone dell’Avvento e alberelli di Natale, residui di recenti festività. Già: proprio il Natale, che il giovane Jan aveva festeggiato appena poche settimane prima, probabilmente avendo già in mente di compiere quel suo gesto estremo. Nessuna pioggia, che nel frattempo ha ricominciato a cadere sulla strada, sarebbe bastata per spegnere la “Torcia umana numero uno”.
Palach è perito nelle fiamme dell’Inferno, anche di quelle metaforiche dell’opprimente dittatura comunista, per amore della libertà. E se è vero che dalla porta dell’Antinferno si arriva fino ai gironi più infami, è pur vero che quella per lui fu l’unica strada per giungere in Paradiso.
di Amedeo Gasparini