Breve storia dei rapporti tra terre ceche e il litorale adriatico: la felicità dell’Ottocento, le ombre del Novecento
Pur di tornarci, il professor Karel Žlábek ideò un tunnel lungo 400km. Era il 1967 e l’economista praghese, dai sogni mediterranei, studiò il tragitto: da České Budějovice andando sottoterra prima di Linz, sbucare a Capodistria, in Slovenia, e continuare su binari fino all’isola artificiale di Adriaport (da costruire per l’occasione). Difficile a credersi, ma una decina d’anni dopo il Partito comunista cecoslovacco prese in seria considerazione il progetto per raggiungere l’Adriatico, senza dover attraversare nessuna frontiera – problema non da poco, per quei tempi. Il progetto prevedeva trent’anni di lavori, tra il 1991 e il 2020 – ma la storia lo ripose nel cassetto.
Raggiungere il mare, o meglio, tornare al mare. Sì perché per i cechi il litorale adriatico non era certo uno sconosciuto, anzi. C’era stato un tempo in cui era il “loro” mare. E il loro porto era Trieste.
Nel 1719 l’imperatore Carlo VI, re di Germania, Spagna, Ungheria, Boemia, Dalmazia, Croazia, Slavonia, Servia e altro ancora, in poche parole a capo di quell’Austria che correva da Praga all’Istria, fece di Trieste un porto franco. Al tempo la città era poco più di un paese, con 3mila abitanti; la decisione di farne il principale sbocco marittimo per Vienna avrebbe dato il via a un impensabile sviluppo per quel litorale all’ombra della grande Venezia. Per i primi decenni, tuttavia, il porto e il relativo commercio ebbero una crescita importante ma non esplosiva, con la città che comunque raggiunse i 50mila abitanti a fine Settecento. Ma fu l’Ottocento a fornire il cambio di passo. Ottocento vuol dire industrializzazione, e l’industria, per l’Impero, voleva dire soprattutto le fucine della Boemia settentrionale, o le fabbriche tessili di Brno, definita al tempo la Manchester della monarchia asburgica. Nel 1840 Brno contava 10mila operai su 45mila abitanti – ed è interessante notare come Praga, invece, era cresciuta molto più lentamente, con circa 5mila operai su 100mila abitanti negli stessi anni; l’apertura della ferrovia Vienna-Olomouc-Praga nel 1845 accelerò l’industrializzazione della capitale, con nuove fabbriche nei quartieri di Libeň, Smíchov e Karlín.
Nel frattempo, cinquecento chilometri più a Sud, veniva fondata l’Imperial Regia Privilegiata Compagnia di Assicurazioni Generali Austro-Italiche (nel 1831), l’agenzia di assicurazioni destinata a divenire simbolo e orgoglio di Trieste dentro e fuori i confini dell’Impero, e poco dopo apriva la sede, in Piazza Grande, della Österreichischer Lloyd (nel 1836), compagnia di navigazione tra le più antiche del mondo. La crescita rivoluzionò presto i ritmi cittadini (a metà secolo gli abitanti erano già 130mila) e nel 1863 il governo bandì il concorso per la costruzione del nuovo porto commerciale.
Così Trieste e Praga diedero vita ad uno sviluppo armonico: da una parte i Monti Metalliferi riempivano le fornaci di carbone, dall’altra la costruzione della ferrovia Sudbahn collegava Vienna all’Adriatico e da lì, ovunque si volesse arrivare. Era il tempo dell’apertura del canale di Suez, del dominio assoluto della Vecchia Europa sui commerci mondiali, della locomotiva e dei viaggi intercontinentali. In una danza oltre la corona degli Asburgo, la felicità delle terre ceche dipendeva dal litorale adriatico, e vice versa. Tanto che i contatti tra le due comunità non tardarono ad essere saldati dall’amicizia: “Nevím proč, ale jisto je, že jsem za dvojího svého pobytu v Terstu byl hned po několika minutách jako doma”, diceva il poeta ceco Jan Neruda, “Non so perché, ma è certo che alla mia seconda visita a Trieste, in pochi minuti mi sentivo già a casa”.
La vita e l’influenza dei cechi a Trieste – così come degli slovacchi a Fiume (Rijeka), considerato il porto della parte ungherese della Doppelmonarchie – è stata descritta con grande attenzione da un ricercatore triestino, Borut Klabjan, che ha pubblicato nel 2008 il testo “Ceškolovaška na Jadranu – La Cecoslovacchia in Adriatico”. Scopriamo così la variegata comunità ceca che si affacciò sul litorale nella seconda metà dell’Ottocento: un ceto medio fatto di impiegati e dirigenti bancari della Živnostenská banka (la cui “nuova” sede del 1914 fa ancora mostra di sé, all’angolo tra Via Roma e Via Mazzini, ospitando oggi locali della Deutsche Bank) o della Česká spořitelna (Böhmische Sparkasse), impiegati e ingegneri della Sudbahn, o gli orgogliosi tecnici della Breitfeld & Daněk, che da Karlín arrivarono a costruire i macchinari della prestigiosa centrale idrodinamica del porto; e poi un ceto popolare che meno risaltò agli occhi della cronaca ma che era pur fondamentale, fatto di operai, manovali, apprendisti, fattorini, camerieri, prostitute. Nel 1890 a Trieste risiedevano circa 1.304 cechi e 382 moravi, e nel 1910, 1.445 cechi e 704 moravi (la città ormai raggiungeva i 230mila abitanti). Mentre a Praga il giovane impiegato delle Assicurazioni Generali, Franz Kafka, prendeva nota di studiare italiano nel dubbio di doversi trasferire nella sede centrale, a Trieste l’associazione ceca, la Česká beseda, riuniva connazionali e insieme slovacchi, croati, sloveni, negli eventi e nei sodalizi organizzati al Narodni Dom, centro del mondo slavo triestino (oggi sede della Scuola Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste). Erano gli ultimi anni dell’Impero e da lì a poco, con la Grande Guerra, l’amicizia tra le due terre prese una piega diversa.
I rapporti tra l’Italia e la Prima Repubblica cecoslovacca andarono avanti a fasi alterne, ma tutto sommato positive, fino agli anni Trenta. Anche perché l’Italia durante il conflitto aveva sostenuto i propositi indipendentisti di Tomáš Masaryk e Milan Rastislav Štefánik, e la stessa Trieste era stata l’approdo di oltre 50mila soldati cecoslovacchi che avevano combattuto con i russi contro l’Austria-Ungheria, e che poi dovettero attraversare la Siberia e imbarcarsi a Vladivostok pur di tornare in Europa. Naturale quindi, che il consolato generale della Cecoslovacchia in Italia nel dopoguerra fosse proprio a Trieste. Ma la nuova libertà per entrambi i popoli, il ritorno alle nazioni “di riferimento”, non giocò sempre a favore dei sentimenti fraterni. Così un raid fascista nel 13 luglio 1920, prima ancora della marcia su Roma, distruggeva i residui di quel multiculturalismo triestino in cui i cechi avevano avuto un ruolo di rilievo: il Narodni Dom, conosciuto anche come Hotel Balkan, era dato alle fiamme. L’avvento del fascismo in Italia ampliò le distanze tra Praga e Roma, fornendo un nuovo motivo a Masaryk e Beneš per prediligere la diplomazia francese. Tuttavia, nonostante le differenze sostanziali tra un regime democratico e multinazionale, ed uno autoritario e nazionalista, i due paesi tentarono di mantenere le relazioni intrecciate in passato. E poi l’industria ceca era desiderosa di mantenere vivo il rapporto con il porto giuliano – certo, in mancanza di offerte migliori. Il primo gennaio 1925 la Reichsbahn tedesca introdusse tariffe ferroviarie vantaggiose per la Cecoslovacchia per raggiungere i porti di Brema e Amburgo, rendendoli molto più a buon mercato di Trieste o Fiume. Nacque così una curiosa guerra dei dazi tra la Germania in recupero economico e l’Italia, una serie di proposte e controproposte al ribasso su tariffe ferroviarie e marittime che portarono alla Conferenza di Fiume nel 1926, in cui Adriatico e Mare del Nord si “spartivano” i paesi dell’Europa centrale senza accesso al mare. La Cecoslovacchia fu divisa in zone diverse: l’industria boema fu destinata a viaggiare verso nord, mentre la Moravia (insieme all’Austria) rientrava nella competenza di Trieste.
L’avvento del nazismo, amico dell’Italia fascista quanto nemico della Cecoslovacchia, allontanò ancora di più il litorale adriatico dal suo vecchio ruolo di finestra ceca sul mondo. La guerra e, forse ancora di più, il dopoguerra, con il braccio di ferro su Trieste simbolo di quella spartizione dell’Europa in due mondi in opposizione, segnarono la chiusura di quei rapporti privilegiati. La “seconda casa” di Neruda non c’era più. Per quarant’anni, la Cecoslovacchia comunista poté solo sognare di scavare sotto i muri e sotto i detriti della storia, per poter riabbracciare l’Adriatico come il proprio mare.
Repubblica Ceca e Trieste si sono poi ritrovate nella nuova Europa; oggi oleodotti e gasdotti le collegano, otto treni al giorno solo verso Ostrava dal Trieste Marine Terminal, nuovi commerci, nuova vita, nuovo benessere, nuovo ruolo da protagonista per il porto giuliano: ma questa, è un’altra storia…
di Giuseppe Picheca