Il proprietario del famoso albergo praghese racconta gli anni magici della città
Si può sognare ancora all’Alchymist: fascino della “sala azzurra”, bicchieri centellinati di Ruinart, ostriche bretoni e una cena a sei. Suona al piano e canta Yves Chlala, cabalista delle note, e gli ospiti sussurrano parole gentili per non fermare la magia. Quando Beirut era ancora sogno esotico, declinato in francese, ignari i due jazzisti Yves e Oleg sbarcavano a Praga.
Certe storie, quasi sempre le migliori, nascono solo per caso, sparse fra le nicchie nascoste del pianeta. Potremmo dire, allora, senza far sorridere per il paragone, che il nostro Alchymist è un po’ “Raffles” e un po’ “Chateau Marmont”, magari aggiungendo un pizzico del “Watergate”di Washington.
Cinquanta camere, una differente dall’altra, pezzi d’antiquariato che avrebbero fatto la delizia del vecchio Mario Praz e, visto che siamo a Praga, dell’incredibile collezionista Utz inventato dalla penna di Bruce Chatwin.
Compie sette anni, l’Alchymist: era destino allora, inevitabile, che c’entrasse Praga dai tetti d’oro nella storia dell’albergo italiano, incastonato nei silenzi di Malá Strana. Dall’inizio nido, mito e insieme rifugio per pochi eletti viaggiatori. Inevitabile che c’entrassero anche la musica e la cabala, oltre all’avventura. Quella che scorreva nel sangue del padre del nostro, Gianluigi Bonelli. Scrittore e mago creatore del western all’italiana. Mito e inventore immortale del miglior Tex di tutte le nostre adolescenze fumettare. Questione di sensibilità, come sempre: un infinito “Ombre rosse” di carta ripensato (e migliorato) alla maniera tricolore.
Gianluigi, il “padre” di Tex, trasudava spirito creativo. Trasudava, nella sua vita, avventura. La stessa che scorre anche nelle vene del figlio Giorgio, esteta e immobiliarista che divide l’anno fra Mitteleuropa, Caraibi e Ibiza.
Era destino, infine, (lo suggerisce il nome) che l’Alchymist nascesse dentro la cabala di una notte praghese: “L’hotel penso di averlo immaginato una sera mentre ero al “Rapsody”, locale che oggi non esiste più – spiega adesso Giorgio, il fondatore. – C’era come sempre Yves, c’era la musica e l’atmosfera giusta. Cercavo da tempo in città un palazzo particolare, un edificio giusto per realizzare il mio progetto. Una specie di rifugio per amici, arredato e pensato come io lo desideravo, con pezzi scelti e arredi raccolti nei miei viaggi per il mondo. Ho dovuto aspettare qualche anno, ma alla fine ce l’ho fatta”.
Come molti raffinati, Giorgio ha la flemma del passista, odia la fretta e lo stress di questi tempi immaturi: “Certo, prima dell’albergo son venute le case e i palazzi – spiega adesso. – Arrivai a Praga proprio nell’89. Era un mondo sideralmente diverso dalla Milano della mia giovinezza. Crepitio di sensazioni, ragazze bellissime, con occhi ridenti nel vento nuovo della della rivoluzione, silenzi in apparenza inspiegabili. Eppure, proprio in questo ambiente surreale potevi anche fare l’immobiliarista. Unire estetica e affari, voglio dire, far rinascere dimore e palazzi seppelliti da 43 anni di incuria. Mestiere di occhio, questione di sensibilità…”.
Un altro bicchiere di Ruinart che scivola leggero, si sente in sottofondo che Yves sta suonando i classici: “Gli italiani, certo, protagonisti di quegli anni ruspanti. Gli italiani che trovavi qui nei primi anni Novanta. I migliori e insieme i più feroci expat arrivati in quella Praga improbabile appena uscita dal comunismo. Era, anche qui – incalza Bonelli – questione di caso, magari di fortuna. Nella “colonia” di connazionali potevi imbatterti indifferentemente nel gentiluomo, nel magliaro, talvolta persino nel pregiudicato o nel più candido dei truffatori. Miscuglio imprevedibile, mix saporoso che solo noi sappiamo realizzare…”.
Certe volte, anche a Praga, i luoghi comuni nascondono però verità inevitabili: “Ci ho pensato spesso: parlandone con gli amici, scherzando con le donne che hanno popolato la mia vita, ironizzando con molte signore ceche sul nostro “dongiovannismo”. E ho concluso che, alla fine, sì, è vero quel che spesso si sussurra: dietro ogni italiano a Praga c’è una donna, o almeno il suo mito. Ma non nel senso volgare – prosegue Bonelli – perché l’italiano viene (veniva) a Praga per cercare di rubare furtivamente un’avventura. Ma altrettanto velocemente, finisce per innamorarsene perdutamente…”.
Dunque, la città dell’Alchymist non è più quella di vent’anni fa?
“La bohème degli anni dal 90 al 95 è finita per sempre – spiega Giorgio. – Oggi Praga rischia di somigliare ad una Disneyland per turisti giapponesi. Se non sai scavare, è ovvio, superare luoghi troppo battuti, la affollata piazza Venceslao. Perché c’è comunque anche la Praga dell’opera, della musica, della letteratura che non tutti riescono (o possono) scoprire. Forse, e qui parlo più da tecnico che da albergatore, la grande occasione turistica di qualche anno fa rischia di scemare. Finite le vette di visitatori con presenze a sei zeri. Non ci sono abbastanza “eventi”, richiami o attrattive perché il turista ritorni a Praga, dopo che c’è già stato una volta. Certo, la Maratona sportiva, qualche mostra importante. Ma sono briciole, per attrarre ogni anno un mercato che potrebbe essere sterminato”.
Adesso, che la cena si avvia alla fine, fra un cheese cake e una torta al marzapane, affiora dalla sala azzurra qualche accento russo: “I nuovi turisti di oggi – conclude Bonelli – forse i migliori, per tutta l’Europa. I più numerosi, accanto ad inglesi e americani. Vengono a Praga per i matrimoni, per le grandi feste, per divertirsi. Ma i russi che arrivano all’Alchymist – educati, compiti viaggiatori – mi ricordano gli inglesi di trent’anni fa” sorride Bonelli il sognatore. Non ha importanza se sia vero o non sia vero: ascoltando le note di “Moonlight”, tutto è possibile, all’Alchymist…
di Ernesto Massimetti