Da Seoul a Bruxelles, le soluzioni del G20 e dell’UE per le regole del futuro. E Praga?
Ancora una volta, a 2 anni dall’inizio della crisi, si parla di strategia di uscita. Se ne parla a Seoul, nel consesso del G20, se ne parla a Bruxelles, nel Consiglio Europeo di fine ottobre, se ne parla nei palazzi del potere della Repubblica Ceca e degli altri Stati europei. E ancora una volta proviamo a capire che cosa succede, cercando di distinguere le mere dichiarazioni d’intento dai passi concreti effettivamente compiuti.
Partiamo dal G20 che si svolge in questi giorni in Corea. Nei precedenti numeri di questa rivista già avevamo preso in considerazione le decisioni prese nell’ambito dei paesi più industrializzati, a partire dal primo vero piano anti-crisi adottato a livello mondiale, in occasione del summit di Londra, e nel successivo tenutosi a Toronto. Attendendo i risultati del Summit dei Capi di Stato di novembre a Seoul, le misure concrete sono state già stabilite dalla riunione dei ministri finanziari e dei governatori delle banche centrali. Anzitutto la premessa, che prende atto della situazione attuale: “ la ripresa globale continua, anche se in maniera fragile e diseguale. La crescita è stata forte in molte economie emergenti, ma il ritmo dell’attività resta modesto in molte economie avanzate.” In sostanza, data la forte interdipendenza dei diversi paesi nell’economia globale e nel sistema finanziario internazionale, nonostante gli sforzi di riforma e di aggiustamento dei conti fatti dai singoli governi, una risposta non coordinata porterà ad una vanificazione delle azioni per tutti.
I punti cruciali sono sempre gli stessi: riforme strutturali per alimentare e sostenere la domanda globale e la creazione di posti di lavoro, completare la sistemazione finanziaria e le riforme del quadro regolamentare, attuare piani di consolidamento fiscale di medio termine, attuare politiche monetarie orientate alla stabilità dei prezzi, prosecuzione del processo di riforma del FMI e delle istituzioni finanziarie internazionali per aumentarne la capacità di risposta alle crisi. il bilancio è positivo, ma evidenzia come mentre per l’iniezione di capitali nel sistema finanziario ci si è mossi con rapidità, per l’adozione di nuove regole c’è ancora molto da fare. Come dire che è meglio pagare una multa che impegnarsi a rispettare i limiti di velocità.
L’azione europea in tali ambiti è stata decisa nel corso del Consiglio Europeo di Bruxelles di fine ottobre, accompagnato dal dibattito sulle diverse soluzioni proposte, sia per i paesi dell’eurozona che per gli altri. Si tratta di imparare dalla lezione del passato per rendere le economie europee più a prova di crisi. L’intesa più importante è stata quella della riforma del patto di Stabilità e della creazione di un Fondo anticrisi permanente per sostenere paesi della zona euro in difficoltà, con un duplice mandato: alla Commissione Ue di fare una proposta sul meccanismo, e al presidente Herman van Rompuy di valutare la necessità o meno di modificare il trattato di Lisbona. Come sempre un compromesso: fra l’asse franco-tedesco guidato dal cancelliere Merkel – sostenuto anche da Repubblica Ceca e Slovacchia – orientato ad un meccanismo sanzionatorio più rigoroso e automatico e quello “mediterraneo” di Francia, Spagna e Italia propenso ad un sistema più flessibile. Tralasciando il dibattito sull’opportunità di modificare il Trattato di Lisbona con sanzioni politiche – la sospensione del diritto di voto dei paesi inadempienti, già prevista per le violazioni dei principi fondamentali – oppure modificando la sola legislazione secondaria, la novità è la volontà comune di rendere il patto più stringente e aumentarne l’incisività sanzionatoria. Oltre a rendere permanenti gli strumenti anticrisi, disegnati per il caso Grecia con carattere triennale. Restano da definire i dettagli di questa riforma: da come operare la stretta sui debiti pubblici (criterio numerico da adottare per il taglio del debito, l’impatto del debito privato e delle riforme pensionistiche, ecc) a come disegnare il sistema di sanzioni finanziarie.
La posizione della Repubblica Ceca è come detto vicina alle ragioni tedesche, e ha trovato una sponda slovacca nel senso della automaticità delle sanzioni: “Questo sistema di valutazione del bilancio degli Stati UE per essere veramente efficace non può basarsi su giudizi espressi caso per caso perché ciò dà luogo a condizioni di disuguaglianza” ha sostenuto il premier Slovacco Iveta Radicova al termine dell’incontro con Necas. Tale posizione è stata ribadita in questi giorni anche dai paesi “V4” – i quattro di Visegrad : Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria – per i quali si apre una fase di “forte responsabilità all’interno dei 27, nel corso del 2011” come affermato dal Premier polacco Tusk. Un nuovo fronte del centro est?
Per quanto riguarda la questione del bilancio UE, la Repubblica Ceca si è unita al gruppo di paesi guidati dalla Gran Bretagna secondo i quali l’aumento del 6% del budget UE per il 2011- e del connesso contributo nazionale – è da scongiurare. In risposta il consiglio europeo ha proposto un aumento massimo del 2,9%.
Per Necas la priorità di Praga in questa fase di riforma è la creazione di un meccanismo che assicuri una disciplina fiscale obbligatoria e rigorosa: “la stabilità dell’euro è di importanza capitale per noi anche se non siamo un membro della zona euro”, ha dichiarato Necas.
Ci si aspetta di conseguenza una serie di misure di rigore fiscale, in parte già annunciate, anche per un paese che non ha toccato il fondo. Se infatti le previsioni di crescita economica per il 2010 sono state riviste in meglio – 2,2% contro il 1,6% di tre mesi fa – per il 2011 il Ministero delle Finanze ha corretto la previsione dal 2,3% al 2%.
Resta da capire se la volontà ceca è quella di creare regole per un gioco al quale Praga vuole partecipare, o se intende rimanere spettatore critico restando fuori dall’eurozona.
Di Luca Pandolfi