Prima della sua costruzione, il grande magazzino Kotva aveva già fatto parlare di sé, non abbandonando più le luci della ribalta
Come molti edifici, il grande magazzino Kotva ha almeno una storia da raccontare. Nel centro di Praga non è certo l’unico a poterci intrattenere con un avventuroso racconto. Attorno ai suoi fluttuanti prismi esagonali si stratifica tuttavia un intrigante palinsesto nutrito di eventi legati alla vita della città e persino ai sentimenti nazionali – cosa piuttosto insolita per un centro commerciale. La sua collocazione urbana, le alterne vicende dei suoi autori, il curioso aspetto e il suo valore architettonico, l’ingegnoso cuore tecnologico, il simbolico esordio da record catalizzatore di molte speranze sono solo alcuni degli aspetti che rendono la scura volumetria affacciata su Náměstí Republiky una vera miniera di storie.
Ancor prima della sua costruzione, il grande magazzino aveva già fatto parlare di sé. Che quel lotto vuoto da cinquant’anni fosse in una posizione tanto cruciale quanto invidiabile lo si sapeva sin dall’inizio. Uno dei più delicati punti di incontro tra Staré Město, la città vecchia, e Nové Město, la città nuova di impianto trecentesco entrata a far parte della Grande Praga solo a fine Settecento, non poteva che riservare sorprese.
La prima idea di collocare un grande magazzino nella piazza dedicata alla nuova indipendenza nazionale era già stata lanciata alla fine degli anni Venti, ma presto ritirata in favore di una caratterizzazione più istituzionale. L’idea ricompare alla fine degli anni Sessanta. L’impossibilità di realizzarne uno in tempi ragionevoli in prossimità della Torre Jindřišská e l’incertezza lasciata sul destino della piazza da svariate proposte per riorganizzarla – coordinandola con il nuovo asse di via V Celnici – riaccendono i riflettori su quel lotto vuoto.
Così il primo dicembre 1969 si chiude con ventuno partecipanti il concorso per la progettazione di un grande magazzino in quello spazio su via Revoluční al limitare della piazza. Le sorprese non tardano ad arrivare. Solo all’apertura del cantiere nel 1971 quel lotto svuotato nel 1918 con la demolizione dell’Istituto delle Nobildonne di Nové Město rivela importanti testimonianze sugli insediamenti della Praga medioevale. La squadra del neonato Dipartimento di Archeologia – guidata da Helena Olmerová e Hubert Ječný – nei soli sette mesi concessi porta a termine con metodi all’avanguardia un’imponente campagna di scavi per la quale sarebbero serviti almeno tre anni. Lungo le antiche mura duecentesche di Staré Město riemergono la chiesa romanica di San Benedetto del XII secolo – inglobata dalla commenda dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici sotto il regno di Otakar II Přemysl – e persino tracce di insediamenti precedenti. In epoca barocca il collegio premonstratense Norbertinum aveva incorporato a sua volta parte di quelle antiche costruzioni, diventando sede dell’Istituto delle Nobildonne nel 1787.
L’onda lunga dei successi dell’Expo 1958 e qualche riforma al mercato interno cambiano le abitudini di consumo della Cecoslovacchia di fine anni Sessanta. Del tutto impreparate, le reti di vendita iniziano a guardare silenziosamente verso occidente – specie per quanto riguarda le principali città. Sino all’inaugurazione del Kotva nel 1975 l’unico grande magazzino di Praga era stato il Bílá labuť, inaugurato quattro giorni dopo l’invasione nazista del 1938.
Immancabilmente la violenta interruzione del processo di riforma avvenuta nel 1968 getta sull’innovativo e rapidissimo cantiere condotto da una compagnia straniera – la svedese Siab – curiosità e stupore. Certo non mancano le polemiche, ma neppure le chimeriche e fiduciose speranze. A testimoniarlo sono le leggendarie voci – presto smentite – sul nuovo grande magazzino che avrebbe venduto solamente merci provenienti dall’ovest. Altrettanto immancabilmente il regime comunista non perde l’occasione di vantare a livello internazionale il nuovo gioiello architettonico – pronto a servire settantacinquemila clienti al giorno – quale imbattibile simbolo della propria prosperità. Tuttavia, quello che era presentato come la punta di diamante del retail nazionale, nonché quinto grande magazzino d’Europa per superficie di vendita al momento dell’inaugurazione, non ha potuto che lottare con difficoltà di approvvigionamento per tre lustri.
I praghesi non hanno visto per molto tempo merci “dell’ovest” rimpinguare gli scaffali del Kotva né le loro case. E Věra e Vladimír Machonin – vincitori del concorso, nel frattempo etichettati dal regime come ‘indesiderabili’ – non hanno visto riconoscere la paternità del loro ingegnoso progetto, né sono stati invitati alla roboante inaugurazione. Caduti in una buia damnatio memoriae, il loro nome è stato cancellato da ogni documento e solo dopo la Rivoluzione di Velluto hanno potuto dimostrare di aver davvero disegnato lo straordinario complesso e le altre loro opere.
Non nuovi a soluzioni formali mozzafiato poggianti su grandi pilastri centrali – esplorate per il concorso del 1967 per una sala da concerto proprio tra Náměstí Republiky e via V Celnici, i coniugi Machonin dimostrano con il progetto del grande magazzino una profonda conoscenza delle tendenze internazionali e una spiccata sensibilità nel destreggiarsi nel delicato contesto della piazza.
La scomposizione dell’enorme volume in una giustapposizione di prismi esagonali ‘fluttuanti’ dà prova della maestria dei Machonin. Questa configurazione a nido d’ape sfrutta a pieno l’irregolarità del prezioso lotto, attende ai programmi funzionali richiesti dall’investitore e, al contempo, modula l’imponente volumetria senza rivelarne le reali dimensioni e senza incombere sulla piazza. Letteralmente al cuore di questa soluzione modulare, colonne prefabbricate in calcestruzzo armato dalle quali si irradiano sei puntoni a sostegno dei solai uniscono sincerità strutturale e flessibilità degli interni, contenendo l’altezza totale dell’edificio entro quella dei palazzi circostanti. Grandi vetrate correnti e una ‘pelle’ in alluminio anodizzato scuro avvolgono il volume sobrio e accattivante, corazzato e mimetico, proiettato al futuro. Tre esili torri in calcestruzzo lo controbilanciano mentre sembrano delimitarne l’espansione modulare potenzialmente infinita.
Le inedite e coraggiose soluzioni in gioco collocano questo amichevole gigante corazzato al crocevia tra il brutalismo cecoslovacco e quello internazionale, con alcune attente reminiscenze funzionaliste. Una combinazione esplosiva difficilmente ascrivibile ad una precisa corrente, interamente frutto della libera ispirazione e del genio creativo dei Machonin.
La risoluta eleganza di questa perla nera dell’architettura ceca conduce – ancora una volta – a riflettere sul destino quantomai divisivo degli edifici brutalisti, audaci prodotti di un’epoca la cui travagliata memoria si ripercuote sulla loro sorte. Le recenti demolizioni hanno ravvivato il controverso e mai sopito dibattito sulla rappresentazione dei valori progressisti insiti nelle loro forme, approfondito dalla retrospettiva “Nebourat! Podoby brutalismu v Praze”, (No Demolitions! Forms of Brutalism in Prague), attualmente in corso alla Národní galerie (Veletržní palác, fino al 6 settembre). Valori spaziali, compositivi e ispiratori che dinnanzi alla maestosa e composta arcana armonia del grande magazzino Kotva – appena acquisito dal gruppo italiano Generali – non sembrano essere messi in discussione.
di Alessandro Canevari