I 50 anni di attività del più iconico (sia musicalmente che politicamente) tra i gruppi rock cecoslovacchi
I Plastic People of the Universe (noti anche come Plastici o Ppu) sono stati uno tra i gruppi più noti dell’oltrecortina già prima del 1989. Ciò a dispetto di una proposta musicale non esattamente semplice, sicuramente molto meno di quella dei magiari Oméga e dei polacchi Dezerter. Non solo, se mai siete stati al Vagon in Národní třída sapete pure come i Plastici sono fatti, perché i volti di alcuni di essi sono ritratti alle pareti assieme ai vari Morrison, Zappa, Lennon & co. A cosa si deve il loro mito, se i dischi dei Ppu sono tutto tranne che semplici? È presto detto: durante la normalizzazione, a causa della loro musica, sono stati in prigione e ciò li ha trasformati in un simbolo del dissenso.
Ora, vi aspetterete che un gruppo simbolo della dissidenza fosse stato fondato con le migliori intenzioni durante la primavera di Praga e, dopo l’occupazione sovietica, avesse scelto la clandestinità per protesta. La realtà è ben diversa.
I Plastici furono fondati giusto il mese successivo all’invasione delle nazioni sorelle del patto di Varsavia. Membro centrale era, e lo sarà fino alla fine dei suoi giorni, Milan ‘Mejla’ Hlavsa, bassista e cantante dalla voce che definire sgraziata sarebbe un eufemismo. Attorno a lui, nei primi anni, ruoterà un gran numero di musicisti – e non solo per questioni di gabbio. Il loro intento era tutto fuorché quello di farsi alfieri della protesta.
La volontà della band era, molto semplicemente, quella di fare musica un po’ diversa. Gli esempi da imitare erano due: Frank Zappa, e infatti “Plastic people” è una sua canzone, e i Velvet underground, tant’è che proprio come loro avranno fin da subito un manager. Questi fu Ivan Martin Jirous, uno strano critico e storico dell’arte che nella teoria doveva essere l’equivalente di Andy Warhol ma che nei modi burrascosi era molto vicino a un Malcolm McLaren senza abilità di marketing. Infatti per le sue continue sfuriate verrà soprannominato Magor (sbarellato) e negli anni successivi starà più dentro che fuori.
Ora, i Plastic in quel 1968, da brava band che non voleva storie col regime, chiedono di essere registrati come complesso presso l’autorità competente. La richiesta è però respinta perché “la loro musica è morbosa e hanno i capelli lunghi”. Cosa vuol dire essere respinti? È presto detto.
Nel mondo occidentale, tutti si parte come artisti di strada e per raggiungere il successo c’è da sgobbare parecchio. In un paese socialista è tutto più semplice. Se la domanda di iscrizione all’albo viene accettata, lo Stato ti dà dei soldi per fare l’artista. Se viene respinta divieni artista di strada, non puoi suonare e lo Stato si riprende pure gli strumenti (che di norma sono assegnati, non acquistati). In quell’occasione Magor, che “ne capiva di politica”, tranquillizzò abbastanza facilmente Hlavsa dicendo che questa situazione di rigidi controlli sarebbe durata al massimo cinque anni e che la band avrebbe potuto sopravvivere facilmente a un periodo così breve.
“A parte il fatto che ha sbagliato di vent’anni, Jirous aveva ragione: nell’underground ce la siamo cavata benissimo” dirà Hlavsa dopo il 1989.
Si è in regime socialista, comunque. Dunque, anche se lo Stato non ti paga per suonare, continua comunque a darti soldi ma per fare altro. A Hlavsa, i soldi, venivano dati per fare il macellaio. A Josef Janíček, tastierista aggregatosi poco dopo la fondazione, per fare il meccanico. E Janíček con dei pezzi di ricambio riesce a mettere assieme degli amplificatori. Gli strumenti, probabilmente, vengono fatti col metodo Brian May, ovvero mettendo insieme i pezzi di altri strumenti trovati andando in giro nelle discariche.
All’inizio degli anni ‘70 la formazione della band inizia a divenire stabile: a Hlavsa e Janíček si sono aggiunti Jiří Kabeš (viola) e Paul Wilson, un canadese (perché al tempo i Plastici cantavano anche in inglese) che si rivelerà utile qualche anno dopo. In questo periodo inizia anche la collaborazione con Egon Bondy, che diventa il principale autore dei loro testi. Bondy, all’anagrafe Zbyněk Fišer, è uno strano animale, un po’ come chiunque ruoti attorno ai Ppu. Durante la sua vita ha infatti collaborato con la VB (la polizia di allora), salvo essere escluso da tale collaborazione, sempre a più riprese, per le sue idee… troppo di sinistra. Nei primi anni ‘70 ha una profonda fascinazione per la Rivoluzione culturale maoista e le sue opere di quel periodo ne fanno un raro caso di “dissidente di sinistra”. La sua opera più importante è ‘Fratelli invalidi’ (probabilmente fuori commercio in Italia da un bel po’) che è ambientata in un futuro molto lontano, ma è una metafora di come vivevano gli artisti non statali in quella Cecoslovacchia.
Nel 1974 si aggiunge l’ultimo tassello della formazione storica dei Plastic, ovvero il sassofonista Vratislav Brabenec, e si aggrega a patto che la formazione non usi più testi in inglese. In quel periodo la band recupera lo status di “complesso di stato” per ben… due settimane! Poi la licenza viene revocata perché i Plastic continuano a non volersi tagliare i capelli e cose così. In questo periodo tirano fuori anche un album in studio (registrato in un castello poco distante da Praga) che si va ad aggiungere alle numerose registrazioni live degli anni precedenti.
Non si era detto che i Plastici non potevano suonare? Infatti ufficialmente non potevano, ma già dal 1969 si erano arrangiati come potevano. Suonavano a casa degli amici, ai matrimoni degli amici, ai funerali degli amici – sì, i Ppu hanno suonato anche in un cimitero – ma soprattutto in campagna dove arrivavano centinaia di persone tramite passaparola. Non che a questi concerti filasse sempre tutto liscio, anzi spesso la VB operava dei blitz – il più famoso avvenne sempre nel 1974 vicino a České Budějovice. La VB arrestò oltre un migliaio di persone prima ancora che i Plastici iniziassero a suonare (i Led Zeppelin al Vigorelli almeno avevano suonato 20 minuti).
In risposta Jirous decise di organizzare i cosiddetti “festival della seconda cultura”. Poi, nel 1976, la polizia decise di agire in maniera più mirata del solito e andò a prendere Jirous, Hlavsa & co. uno per uno in casa. I membri dei Plastic si fecero nel migliore dei casi otto mesi di carcere (Jirous continuerà ad andare dentro e fuori fino alla fine del socialismo), tutte le registrazioni e i libri trovati durante i blitz furono sequestrati. Soprattutto, Paul Wilson fu espulso dalla Cecoslovacchia e questo fu un punto di svolta. Wilson infatti, tramite canali diplomatici, riuscì a portare all’estero le registrazioni dal vivo e pure quelle dell’album in studio, che oggi conosciamo col nome di Egon Bondy’s happy hearts club banned (banned, non band).
Ora che il materiale è pubblicato all’estero bisogna far diventare i Plastic famosi oltrecortina. A questo ci pensa un giovane scrittore di teatro con la R moscia che aveva conosciuto la band un paio di anni prima. Questi dà il via a un’iniziativa di denuncia delle violazioni dei diritti umani in Cecoslovacchia (esemplificate appunto dall’arresto dei Ppu). Lo scrittore è ovviamente Václav Havel e l’iniziativa è Charta 77. Risultato principale sarà poi che Havel raggiungerà Magor al gabbio e anche lui dovrà attendere diversi anni per uscire.
I Plastic, invece, nel 1978 sono già belli che liberi. Continua in sordina l’attività fino al 1987 quando Hlavsa, stufo del moniker (nomignolo) ingombrante, fonda i Půlnoc assieme a Janíček e Kabeš. Arriva la Rivoluzione di velluto, e nel 1991 i Půlnoc pubblicano City of Hysteria (simile per sound a Egon Bondy’s ma meno complesso) per… Arista Records! La band – caso più unico che raro – probabilmente grazie alla sua popolarità nella dissidenza politica, riesce a pubblicare per una major.
I Plastici si riformeranno nel 1997, dopo caldi inviti di Havel, con la formazione storica Hlavsa-Brabenec-Kabeš-Janíček. A questi si aggiungono Jan Brabec, che già era stato loro batterista, e Josef Karafiát alla chitarra. Perché magari non ve ne siete accorti, ma fin qui non si era mai parlato di chitarristi. I Plastic infatti fino ad allora non ne avevano mai avuto uno di ruolo (e durante le registrazioni in studio le sei corde erano gestite da Hlavsa).
Ironia della sorte, con questa “nuova golden-lineup” i Plastici suoneranno solo fino al 2001, quando un cancro si porterà via Hlavsa. Nondimeno, i nostri continueranno a suonare fino al 2015, anno in cui la voglia di Occidente che li ha sempre permeati, li rende definitivamente identici a molti vecchi dinosauri del rock. I Plastic, ormai anche loro dinosauri settantenni, si sciolgono. Lo fanno nella maniera peggiore, con due nuovi gruppi e contorno di battaglie legali su quale dei due complessi abbia diritto al nome. Per ora i Plastic “veri” sono quelli in cui sono rimasti Janíček e Brabenec; quelli di Kabeš e Karafiát si chiamano Ppu New Generation. Entrambi attivi dal vivo, anche se questo strano “finale col botto” lascia molto amaro in bocca e la convinzione che la storia dei Ppu debba trovare una conclusione migliore.
di Tiziano Marasco