Viaggio letterario tra le mille anime di una città raccontata da grandi scrittori, ma con un fascino che rimane, tuttavia, inenarrabile
Cos’è una città? Di certo non è solo un centro abitato di grandi dimensioni fatto di edifici, strade, piazze e servizi pubblici necessari alla vita sociale dei suoi abitanti. Essa è un vero e proprio organismo “vivente”, un elemento nel suo complesso unitario, coerente e in continua trasformazione. Ognuna ha una sua storia, un suo passato e, dunque, una memoria che necessariamente la contraddistinguono e ne definiscono in un certo senso il carattere. C’è poi, però, anche un altro aspetto specifico delle città, e di alcune in particolare, ed è il loro immaginario, la dimensione ideale propria fatta di leggende, miti e racconti patrimonio di quell’ambito sospeso tra l’ideale e il reale che è la dimensione puramente letteraria. Ed è proprio alla letteratura che si deve guardare, quindi, se si vuole arrivare a cogliere l’essenza sfuggente di una città, la sua individualità più intima, la sua anima sospesa tra realtà e immaginazione.
Qual è, dunque, l’anima di Praga? Per scoprirlo bisogna cercare non solo nelle sue stradine e vicoli suggestivi – cosa, tra l’altro, resa oggi difficile dagli sciami di turisti distratti che li percorrono –, negli angoli nascosti e poco frequentati, nelle birrerie storiche o nelle architetture eleganti e straordinarie della capitale ceca. Bisogna ricercare soprattutto nelle biblioteche, nei libri sugli scaffali dei suoi antiquariati, nelle pagine di carta odorosa che testimoniano il fascino smisurato che questa città esercita da millenni su scrittori, artisti e su tutti quelli che la contemplano. È lì che bisogna guardare per cercare di comprenderne l’anima.
E si tratta di un’anima complessa, sfuggente, ambigua, è un’anima, potremmo dire, “d’oro e nera”, volendo usare le parole di Peter Demetz.
Sull’anima nera di Praga si è scritto e si continua a scrivere tanto, forse troppo. Dagli alchimisti dell’Imperatore Rodolfo II e il Golem, passando per i fantasmi, Faust, fino a Meyrink e agli occultisti degli inizi del Novecento, la città è un crogiolo di esoterismi e magia sintetizzati nella diceria famosa del triangolo magico di cui la capitale ceca occuperebbe uno dei vertici. Sono in molti i letterati che hanno subito questo incanto dell’arcano. Al suo fascino nero hanno ceduto grandi scrittori contemporanei come Jorge Luis Borges che vede la città “piena di sogni perduti in altri sogni” e ritiene che in essa “sia tutto particolare, oppure, se volete, nulla è particolare. Può accadere qualsiasi cosa”. O il poeta Nazim Hikmet che percepisce le statue del Ponte Carlo come “uccelli venuti da un pianeta morto” e la neve che cade sulla città come “liquida e plumbea” mentre “biancheggia l’alba”. Queste tonalità oscure della Città dalle cento torri si possono leggere in innumerevoli scrittori. “Chi abbia guardato una volta Praga nei profondi occhi trepidi e misteriosi, resta succube tutta la vita dell’incantatrice”, scrisse Oskar Wiener, e Claudio Magris aggiunge che Praga è “la città per eccellenza dello spaesamento, dello sradicamento, della perdita”. Ripellino ci ha provato a trasmettere questo lato oscuro dell’anima praghese, satura di suggestioni, tanto da non permettere a chi si relaziona con essa di metabolizzarle completamente. E il suo famoso saggio “Praga Magica” rappresenta questo tentativo di comprendere e comunicare questa tempesta perfetta di emozioni. “Se cerco un’altra parola per dire arcano, trovo soltanto la parola Praga”, scrive lo slavista e poeta italiano secondo il quale questa città “s’insinua sorniona nell’anima con stregamenti ed enigmi, dei quali solo essa possiede la chiave. Praga non molla nessuno di quelli che ha catturato”. Un concetto che riprende quello più famoso espresso molti anni prima da Kafka, quando in una lettera del 1902 all’amico e storico dell’arte Oskar Pollak dice, riferendosi alla sua città che non lo lascia libero: “questa matrigna ha gli artigli”. Il rapporto di Kafka con Praga, poi, è molto più complesso di quanto non sembri in apparenza. La città che fa da sfondo al “Processo” – e alla vita del romanziere ebreo praghese – nel capolavoro dello scrittore non viene però mai menzionata.
C’è poi chi dell’anima di Praga ha colto anche altri aspetti, come Jan Neruda, uno dei creatori dell’immagine poetica della città. Ne “I racconti di Malá Strana”, capolavoro del narratore, Neruda descrive la realtà borghese di un quartiere che da sempre rappresenta il cuore di Praga, mettendone in risalto, attraverso i suoi abitanti, i sentimenti di gioia e tristezza, malinconia e ironia. Ed è proprio l’ironia una delle caratteristiche principali dello spirito praghese, onnipresente nella cultura letteraria ceca. Quell’ironia e umore nero con i quali Jiří Weil racconta la Praga dell’occupazione nazista, quando ad un ufficiale delle SS viene chiesto di salire sul tetto dell’Accademia di Musica per rimuovere la statua di Mendelssohn, ma lui non sa riconoscerlo tra le diverse presenti lì. E poi c’è Bohumil Hrabal e la sua Praga dal sapore quotidiano, grottesco e a tratti surreale. Nelle pagine di Hrabal traspare completamente il senso dell’umorismo ceco e praghese in particolare, quell’humour che era stato anche di Jaroslav Hašek. Hrabal ama la sua città, la birreria “Alla tigre d’oro” dove incontrava amici e intellettuali, ma in particolare ama la sua periferia che gli induce meraviglia: “Passeggiavo di notte e non potevo saziarmi della poesia di quella periferia in cui il gassometro a forma di sfera si ergeva su Palmovka”. Un approccio alla città certamente diverso da quello, ad esempio, di František Langer che vedeva Vodník ovunque, o di Leo Perutz, anch’egli ammaliato dalla Praga Rudolfina che si nutriva di Elisir alchimici e pietre filosofali… Ma al tempo stesso, e a suo modo, l’approccio di Hrabal resta sempre e comunque magico. E poi c’è la Praga di Kundera, quella Praga vista attraverso gli occhi degli intellettuali, posati sulla città immersa nella luce della Primavera e l’ombra dell’invasione sovietica; una città che offre la sua apparenza costituita di leggerezza e tragicità.
In questa scelta assolutamente arbitraria e casuale di voci, di testimonianze sugli aspetti manifesti o reconditi di Praga, vogliamo aggiungerne un’altra, quella di Vittorio Sermonti, anch’egli stregato da questa città, e forse tra gli autori stranieri che più si sono avvicinati allo stile dei cechi quando provano a parlare della loro Città. Ne “Il tempo fra cane e lupo” Sermonti ci racconta anch’egli di una Praga sospesa tra ciò che era, ciò che è e ciò che forse sarà. Una Praga fatta di esistenze singole e, al tempo stesso, tutte espressione unica del suo inconscio e conscio collettivo.
Ma in fondo l’anima di questa città, a guardar bene, non è solo d’oro o nera, e come tutte le cose, forse, non ha neanche un’essenza ben definita. Ecco perché, probabilmente, ciascuno scrittore ci ha visto e ci vede dentro ciò che è capace di vederci, ciò che si porta dentro. Alla fine, dunque, Praga è forse solo una metafora, uno specchio di ciò che siamo, una tavola del test di Rorschach, senza un preciso contenuto valido universalmente e, quindi, sospesa per sempre tra l’ideale e il reale.
di Mauro Ruggiero