Più che turismo di massa fu un’attività di esplorazione collettiva, massimamente al risparmio, perché a quell’epoca soldi i cechi non ne avevano proprio. Era il 1990, e lo stipendio medio nella Cecoslovacchia non superava le 3.000 corone (poco più di 100 mila lire di allora). Qualche mese prima era crollato il Muro di Berlino e Praga aveva messo in scena la Rivoluzione di velluto. I cecoslovacchi presero al balzo la libertà per precipitarsi verso l’Occidente, spinti dal desiderio di sapere com’era il mondo dall’altra parte. A costo di sottoporsi a epiche sfacchinate, a bordo di autobus sgangherati, alla scoperta di un mondo nuovo, ricco e seduttore, ma sideralmente lontano dalle loro possibilità.
Fu così che i mitici e scricchiolanti autobus Karosa dell’epoca si misero in marcia, incolonnandosi alla frontiera, finalmente libera. Alla Cedok in quel periodo andavano a ruba proposte del tipo: “L’Italia in tre giorni”. La Penisola divenne subito la meta più gettonata, in quell’estate che da noi era iniziata sulle note delle Notti magiche di Gianna Nannini e Edoardo Bennato. E con il boato negli stadi italiani per i goal di Toto Schillaci, ma anche di Tomas Skuhravy, il centravanti della Cecoslovacchia, vice-capocannoniere a Italia ’90.
Fu una invasione piena di entusiasmo, alla conquista delle spiagge del nord est e della riviera romagnola. Ma fu soprattutto Venezia, città d’arte per eccellenza, la destinazione preferita di quel turismo mordi e fuggi. Quell’estate, sino ad ottobre inoltrato, la città lagunare venne presa d’assalto ogni fine settimana da 40/50 mila visitatori dell’Est e i cecoslovacchi erano fra i più numerosi.
I torpedoni, all’inizio dei fine settimana, partivano la sera da Praga, da Plzen, da Brno, per poi arrivare alle prime luci dell’alba, talvolta ancora in piena notte, a piazzale Roma (Isola del Tronchetto) il terminal automobilistico di Venezia. In poche ore il grande parcheggio era già pieno e coinvolto dal caos più totale. Davanti ai pochi servizi igienici a disposizione, file di 100/200 persone, con le porte che si aprivano e chiudevano con un ritmo frenetico. E pian piano, mentre ancora albeggiava, con gli occhi rossi per la notte trascorsa sul pullman, le comitive si muovevano, occupando calli e ponti della Serenissima, sino alla conquista di Piazza San Marco.
“Le truppe di Praga invadono Venezia” fu uno dei titoli più emblematici, di quell’estate del 1990, per descrivere quella città traboccante di “reduci del socialismo sconfitto”. La Repubblica scrisse non senza inclemenza: “L’ora della prima colazione li vede in fila con le mille lire davanti agli sguardi d’odio del barista che si trova il locale intasato per dei miseri caffè. Della città sognata riescono a cogliere solo scampoli di una bellezza deformata. All’ora di pranzo i cecoslovacchi sfilano davanti al Florian a vedere quelli che prendono l’aperitivo, per poi accasciarsi sulla Riva degli Schiavoni ad aprire scatolette e involucri di fettine impanate”. E, la sera, tutti in pullman per tornare a varcare le montagne dalle quali erano discesi.
Fu in quel clima che il comune veneziano intervenne nel 1990 presso l’ambasciata Cecoslovacca, ma anche presso quelle di Polonia e Ungheria, perché vi fosse maggior controllo e scaglionamento delle partenze. Un parlamentare e consigliere comunale democristiano giunse ad affermare che i cecoslovacchi non potevano essere un affare e quindi dovevano essere tenuti lontani, perché dessero la precedenza ai ricchi turisti occidentali.
Il modo col quale avvenne, nel Novanta, quella epica invasione dell’Italia fu anche raccontato in forma ironica da un film, “Slunce seno erotika”, del regista Zdeněk Troška. Le esilaranti vicende di un gruppo di cechi, di un paesino della Boemia, che si recano in Italia per instaurare rapporti di collaborazione con una cooperativa agricola italiana. Una commedia piena di episodi grotteschi, tutta giocata sulle abitudini dei cechi d’allora, con un occhio di riguardo ironico anche per i modi di fare degli italiani.
Tra l’altro, in quel clima di conquista e di novità, l’estate del 1990 fu anche quella in cui i latin lover italiani – che allora andavano ancora di moda – scoprirono le bellezze cecoslovacche. E fu un amore a prima vista. Un colpo di fulmine che non poteva rimanere senza visite ricambiate, con moltitudini di maschi italiani subito in viaggio alla scoperta dell’Est.
“Quel mio primo viaggio in Italia – un’intera giornata a Venezia e due giorni di campeggio a Bibione – rimane il più indimenticabile della mia vita. Per me significava la libertà” ricorda oggi Olga, avvocato di uno studio legale internazionale con sede a Praga. Una professionista, con esperienze di lavoro negli Stati Uniti e in Svizzera, che ora si permette vacanze nei paesi più esotici del mondo. “A Venezia ci sono stata di nuovo l’anno scorso, per un fine settimana, all’Hotel Cipriani. Ma non è stata la stessa cosa, non potrà mai più esserlo”.
Iniziare a organizzare il flusso turistico ceco verso l’Italia, nei primi anni del ’90, fu indubbiamente un’impresa, ma ci vollero poche estati per comprendere che si trattava di una scommessa azzeccata. “Ora i cechi – i “i cecoslovacchi” come spesso continuano a chiamarli – sono considerati dei clienti di particolare riguardo, ma anche allora, in quei primi anni, stupiva la loro passione per l’Italia, la conoscenza della nostra cultura e della nostra lingua”. A raccontarlo oggi, con cognizione di causa, è Aldo Cicala, “romano de Roma”, a Praga da una vita, fondatore della Cicala cestovni kancelar, un tour operator specializzato sull’Italia, che ancora oggi va per la maggiore. “All’inizio ebbi a che fare soprattutto con dei pregiudizi. A Lignano Sabbiadoro mi dissero che “i turisti dell’Est” non erano clienti adeguati per le loro strutture. E il fatto di essere romano, in certe zone del nord d’Italia rendeva le cose ancora più difficili. La diffidenza era massima. Poi la svolta a Bibione, dove ebbi la fortuna di trovare un operatore che mi diede fiducia” ricorda Cicala. “A quel tempo i cechi chiedevano soprattutto gli appartamenti e i mesi di bassa stagione erano chiaramente quelli in cui si lavorava meglio. I nostri pullman – sei o sette a settimana – facevano la spola con l’Italia. Più i clienti individuali. Negli anni Novanta siamo arrivati a portare in Italia 4/5 mila famiglie in un’estate. Persino la Cedok si appoggiava a noi” dice Cicala, senza nascondere un certo orgoglio per aver creduto nelle prospettive di quel mercato. Gli operatori italiani impiegarono poco a mettere da parte pregiudizi e diffidenza, soprattutto quando cominciarono a vedere i primi soldi. “I cechi allora pagavano in marchi tedeschi e ricordo ancora lo stupore di un imprenditore turistico italiano quando incassò 400 mila marchi, uno sull’altro, a titolo di caparra per degli appartamenti”.
I pregiudizi però non erano solo da una parte. “A quei tempi la televisione cecoslovacca trasmetteva lo sceneggiato La Piovra. Nei primi tempi, alcuni clienti evitavano di recarsi in Italia con le loro Skoda dell’epoca, per il timore che qualche mafioso potesse rubargli la macchina…. Così preferivano l’autobus, o il treno” ci ride su Cicala.
Sono trascorsi venti anni da quel periodo e sembra incredibile la velocità con la quale tante cose sono cambiate. L’Italia è sempre fra le mete turistiche più ambite, ma i cataloghi dei tour operator cechi sono diventati patinati e viaggiare in aereo, per tutte le destinazioni del mondo, è ormai una consuetudine. Adesso sono i cechi, anzi, che diventano sempre più schizzinosi, soprattutto nei confronti degli studenti italiani, che, coi cosiddetti “viaggi di istruzione”, affollano Praga durante i mesi invernali di bassa stagione. Allo stesso modo con il quale da noi si scriveva dei turisti dell’Est sul Ponte di Rialto, ora sono i giornali cechi a scrivere delle scolaresche italiane sul Ponte Carlo, in un tripudio di pregiudizi che vanno e vengono. E una morale della storia sempre uguale e da saper cogliere.
di Giovanni Usai